giovedì 3 maggio 2007

TELETERRORISTI

E’ terrorista uno che suona i citofoni? Davvero è a questo punto la nostra democrazia? L’irresponsabilità sociale di esternare le proprie opinioni in un delicato passaggio di tensione spetta alla discrezione di ciascun individuo.

Forse Andrea Rivera non l’ha avuta, ma mi piacerebbe pensare di svegliarmi in un paese in cui un individuo (chiunque esso sia) sia libero di esprimere critiche, anche se non condivisibili.

D’altronde mi pare che l’intera nostra classe politica s’esibisca quotidie in questo raffinato esercizio e non ho visto risacche di tale portata tornare indietro su di essa…..

3 commenti:

Claudio Cerasa ha detto...

I citofono a me me fanno taja però.

Claudio Cerasa ha detto...

I citofoni, of course

Anonimo ha detto...

E' noioso, pesante e lungo. Lo so, lo so. Ma ne sento il bisogno, echecazzo. E se non lo si fa in un blog così, dove lo si può fare?
Nel luglio del 1990 frequentai un corso estivo di tedesco ad Augsburg. Mi è sempre rimasta in mente una lezione su una poesia di Brecht che a noi principianti sembrava meravigliosamente impossibile riuscire a leggere in lingua originale. La poesia era Die Bucherverbrannt. Come ogni altro insegnante di tedesco io abbia avuto, il mio giovane professore Claus si sentiva in dovere di parlare a degli stranieri come noi della recente storia tedesca. Lo ricordo pronunciare la frase: “Wenn man bucher brennt dann brennt man die leute auch” che in italiano più o meno suona così: “Quando l’uomo inizia a bruciare i libri, prima o poi brucia anche le persone”.
Era una frase piuttosto scontata che veicolava un concetto riecheggiato nelle mie orecchie centinaia di volte fin da quando ero sui banchi delle elementari. Io sono del 1970: tutti quelli della mia generazione, dieci anni più dieci anni meno, sono cresciuti così. A tutti noi è stato ripetuto che un tempo c’era l’Italia fascista, un posto dove non era concesso esprimere le proprie idee e il proprio dissenso ma che dall’avvento della Repubblica le cose erano cambiate.
Tutti noi sapevamo, forse già fin da allora, che le cose non stavano proprio così ma, negli anni, abbiamo constatato che in fondo, in questa Italia tragicomica, se non andavi a ledere concretamente itneressi specifici, da quello del piccolo boss di quartiere a quello della multinazionale, nessuno bruciava i libri e nessuno bruciava le parole. In fondo, le democrazie stanno in piedi proprio perché non censurano. E non già per motivi filantropici ma per spirito di sopravvivenza. Tanto meglio comunque. La censura aperta, ingenua, dichiarata, come quella che facevano i fascisti sui giornali degli altri orientamenti politici prima dell’avvento del partito unico, cancellando con inchiostro nero gli articoli indesiderati, indebolisce il potere perché fa scattare un pertinace desiderio di ribellione. È un po’ come vietare a un ragazzino la tavoletta di cioccolata.
In questo campo il “laissez dire” ha sempre fatto gioco: più magagne vengono allo scoperto più ci si fa l’abitudine, ci si volta dall’altra parte, si impreca contro il governo ladro di turno e si va a lavorare. Su questo acquisito diritto al dissenso e all’espressione abbiamo sonnecchiato.
Anche sul diritto al dissenso “nazional-popolare”, quello che si palpa in una società viva anche senza entrare nelle aule universitarie o in quelle dei convegni, senza acquistare libri. Il dissenso che ora fa fatica a evitare le censure, il dissenso che fa sì che l’aria di una nazione sia respirabile e non soffocata da una cappa di ipocrisia e conformismo.
Quel dissenso che contiene quel pizzico di alterità che può mettere in moto un neurone intirizzito anche nel viaggio in treno di un pendolare; che strappa una risata e infonde una goccia di vitalità in uno spirito ormai assopito. Quel dissenso che proprio perché è tale è dialettico, implica l’altro e il pluralismo negando il monolitismo e l’assolutismo. E il pluralismo, figlio del polemos, sta alla radice stessa della cultura europea nata nella fucina della Rivoluzione scientifica secentesca, dell’empirismo, del liberismo, della Rivoluzione francese. Un percorso che ha rifiutato l’indice dei libri proibiti così come il giacobinismo, la fusione tra potere spirituale e potere temporale come il monopartitismo, i processi dell’Inquisizione così come la pianificazione unica e monolitica dell’economia.
Non è una riflessione di tipo etico. Il pluralismo può piacere o meno ma siamo noi i primi a dire che fa parte della nostra cultura e della nostra identità. Eppure, sta tragicamente morendo sotto gli occhi sonnecchianti di tutti noi.
E qui l’etica c’entra, perché c’entra l’onestà. Se questo pluralismo non lo vogliamo più diciamolo. Chiamiamoci con il nostro nome. Assumiamoci delle responsabilità, attività sempre troppo poco praticata in questo paese.
Mi ha sempre affascinato osservare i modi e i tempi con cui si sono instaurate le dittature. Piano piano strisciando, convincendo, reprimendo o addormentando. Bene, se abbiamo sonnecchiato sul nostro diritto di esprimerci e di dissentire ora ci siamo profondamente addormentati. Ci svegliamo solo quando dobbiamo scandalizzarci per un burka che cancella un essere umano chiamato donna ma lo facciamo solo perché, anche se quel burka vive nell’appartamento accanto al nostro, ce ne sentiamo immuni. Fa molto più male, e per questo continuiamo a dormire, aprire gli occhi e la bocca sul clima sempre più ricattatorio creato, voluto e gestito dalla Chiesa con l’avvallo della classe politica.
Quando Pio IX chiese agli italiani di non votare per le prime elezioni politiche dello stato italiano la classe politica si ribellò. Si sa quanto il ricatto spirituale sia un’arma facile e potente. Ma la classe politica si ribellò. Perché era nei suoi intererssi farlo, è ovvio. Ma quegli interessi stessi venivano tutelati proprio della separazione tra potere spirituale e potere temporale. E quindi si lottava per non perderla. Del resto questa separazione nacque presto in Europa, al contrario di quanto accadde, per esempio, di là dagli Urali.
Ma anche secoli prima dell'unità d'Italia c’era chi vigilava e lo diceva a gran voce.
Uno tra tutti? Dante Alighieri. Pare impossibile che ora si venga incitati da un monsignore a non andare a votare o accusati di terrorismo se si dissente, durante un concerto popolare, dalla decisione di non aver voluto dare funerali religiosi a Welby e settecento anni fa Dante dipingeva nella sua Commedia un Bonifacio VIII all’inferno, reo di voler assommare a sé potere spirituale e potere temporale impicciandosi di fatti politici.
Anche perché il Sommo non si fermava qui: Manfredi di Svezia, figlio di Federico II e scomunicato, lo colloca in purgatorio non all’Inferno, contraddicendo a chiare lettere il pontefice. Un po’ più pesante della considerazione di Andrea Rivera al concerto del primo maggio…
Elogio del libero pensiero cinquecento anni prima della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo?
Beh, oggi che io sappia, non abbiamo un Dante Alighieri ma un presidente del consiglio che deve vigilare sul rispetto della Costituzione di uno stato laico come l’Italia sì. E sarebbe suo dovere intervenire in modo deciso a tutela dei cittadini, della libertà di dissenso e di espressione. E invece lascia fare.
Tutti noi lasciamo fare, lasciamo dire, anche aberrazioni scientifiche come quella secondo la quale gli omosessuali sarebbero degli ammalati e degli anormali e rispettiamo questa voce in nome del pluralismo. Ma questo pluralismo difeso e accettato dalla classe politica e dalle lobby giornalistiche è a senso unico e sbilanciato e quindi pluralismo non è. Pensate a cosa succederebbe se qualcuno desse degli ammalati e degli anormali agli uomini di chiesa… Uno spiraglio di luce? Se è vero che la censura dichiarata incita alla ribellione…
Per il momento, aspettando di alzare la testa, se pensate che scomodare Dante Alighieri su un fatto banale quale la querelle del concerto del primo maggio sia eccessivo e fuori di luogo, se pensate che tirare in ballo le dittature sia antistorico vi chiedo solo di ripensarci un attimo la prossima volta che qualche monsignore chiederà agli italiani di non andare a votare, la prossima volta che un giornalista avrà un tentennamento prima di commentare le parole del Pontefice o, al contrario, non avrà tentennamento alcuno a mettere come un mantra ossessivo e obnubilante la sua foto e le sue parole sulla prima pagina del giornale, sopra una non- notizia che arriva da Piazza San Pietro. Pensatelo la prossima volta che ci bruceranno, non ancora i libri, ma le parole. Da lì a bruciare le coscienze passa un attimo. Anzi forse è già passato.