lunedì 19 luglio 2010

SUORLETIZIA DIGITALE!


Siore e siori, ecco a voi Teleletizia. Canale 33. Digitale terrestre.
Paul Steiger tremi: 3 megabyte s’agitano, da poco meno d’un mese, nel primo canale televisivo prodotto, gestito, occupato dal sovrano cittadino dell’ex capitale morale d’Italia, Milano.
Trecento mila euro in meno nel paniere della petrol-sindachessa (a suo carico, il costo dell’intera operazione) e un’autorizzazione alla messa in onda, fresca fresca, dal Ministero dello Sviluppo Economico, dipartimento Comunicazione.
Milano 2015, il nome della creatura. Locuzione anodina su cui convergono due anni di baruffe politiche, tramenii di poltrone, passaggi di nomina che come sarmenti si sono avvitati attorno alla parolina con cui le nostre mandibole si dimenano da un po’: EXPO.
Buona, appunto, solo per esercizi ginnici degli ossi mascellari e arrampicate concettuali sulle pagine dei giornali. Poco importa – poi - che si entri negli assessorati regionali per scoprire con sgomento, a due anni dall’aggiudicazione del merito, che “Non ci abbiamo un progetto, uno”.
Neppure un’incipriata semantica con cui truccare l’acedia.
Comunque, dicevamo, il canale della Moratti.
Fateci un salto.
Dopo tanto almanaccare, qualche salace spin doctor a suo servizio deve aver pensato: “Come minchia facciamo a farle rivincere le elezioni nonostante l’ostruzionismo della Lega, il bagno di sangue nel pdl e quattro rovinosi anni di gestione, attraversati da scandali che avrebbero atterrato un basilisco? (Accontentati tutti i palati: dai derivati alle mazzette infilate nel pacchetto di Marlboro di Milko Pennisi, presidente della commissione Urbanistica a Palazzo Marino: concussione in flagranza di reato – ah! Gli anni Ottanta…).
Ed ecco il bolzone che sfonderà la campagna elettorale: “Ma certo! Il canale digitale!”.
“La Milano delle piccole cose”, è lo slogan programmatico che intende sciogliere la paresi nella quale l’ingessato primo cittadino sembra essersi incartato nell’immaginario collettivo.
Ma qualcosa dev’essere sfuggito alla macchina comunicativa.
La sciura Moratti, apparecchiata in una foggia non dissimile da quella che squadernerebbe a una prima alla Scala (lobi e anulari smeraldati, lunghe unghie rosso laccate più simili ad artigli, in verità), flaneggia nei mercati rionali con la sua Gucci al braccio; domanda, pungola sui disservizi, mentre consegna cinque euri cinque, a un banco, per l’acquisto di due teli da cucina (Mah..).
Mentre una corpulenta massaia le si getta contro arrotando ingiurie a proposito di qualcosa come “lo scandalo del sangue infetto” - e un mancato risarcimento, oltre a sfacciate porte di assessorati sbattute in faccia - Suor Letizia, con la stessa sinuosità di un traliccio di cemento, sibila un mesto: “Ma non è colpa del comune”, per poi appuntarsi, solerte, le generalità della tapina su uno straccio di carta.
Intanto, il boiardo Poletti (sì, quello di Telelombardia, dimessosi da deputato) redarguisce la massaia allo strillo di “Ma lei è troppo polemica!”.
Si è presi quasi da tenerezza nel vedere la petrol-sindaca stringere mani, assicurare l’aggiustamento delle buche, appuntarsi nomi, carezzare l’ispido pelo delle contestazioni con la stessa convinzione con cui un’entreneuse strillerebbe dev’essere illibata, in un boudoir.
Mi segnalano che vi è anche la versione “Sindachessa in casa di riposo per artisti”, “Sindachessa in campo rom”, “Sindachessa in shopping per nipotame durante notte bianca”, “Sindachessa sulla 90” (che è – per chi non fosse di Milano – l’autobus sul quale, se tutto va bene, si viene stuprati).
Ma la variante nella quale sono inciampata io è la cronista che in viale Padova interroga - in una desueta commistione di italiano e dialetto padano - “Il Giampi”. Un’istituzione, nel quartiere: cento per cento di milanese doc, esercente storico della via e in buoni rapporti con “quelli di razza diversa” (cit.) che lavorano accanto a lui. Tradotto: una manciata di maghrebini che sorridono al microfono, berciando che i rapporti con i residenti sono ottimi e l'ostico processo d'integrazione è roba per riempire le scalette dei tg.
Credo che l’improbabile collega sia da ascriversi alla formula “pool di giornalisti fresco e dinamico", che si legge sul sito di presentazione del canale.
Ah, dimenticavo! Le riprese televisive, come giustamente ricorda Sarah ((http://www.milanotoday.it/blog/sarah/milano-2015-il-canale-della-moratti-sul-digitale.html)
sono parimenti assimilabili a quelle di “The Blair Witch Project”.
Mio nipote di due anni le saprebbe fare meglio.

domenica 25 aprile 2010

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO DI PERUGIA 2010


http://ijf10.ilcannocchiale.tv/video/2184

sabato 30 gennaio 2010

"LA VERITA' - VI PREGO - SULL'ANARCHICO PINELLI"


Ottobre 1952. Licia ha ventiquattro anni. Pino dieci mesi secchi in meno.
“Perché intendete studiare esperanto?”, chiede l'insegnante, al corso in cui entrambi – senza conoscersi – si sono iscritti.
Licia non esita in una replica che le aggiudica un giovane sconosciuto, “svelto come un razzo” ad acconciarsi accanto a lei, nel banco.
Poi c'è una lunga passeggiata a piedi, da via Manzoni fino a viale Monza, in cui i due giovani possano acciuffare quote di territorio emotivo, prima di scambiarsi un bacio, sei mesi dopo.
Confesso: mi era sfuggito “Una storia quasi soltanto mia” (uscito lo scorso settembre per la Feltrinelli) cui io riassegnerei il titolo, “La versione di Licia”.
Licia Pinelli: per tutti - per sempre - “la vedova dell'anarchico”. Il giovane che studiava esperanto perché “se gli uomini si conoscessero non ci sarebbero più guerre”, volato giù dal quarto piano della questura di Milano, qualche minuto dopo la mezzanotte del 15 dicembre. Siamo nel '69. Tre giorni prima, diciassette morti e tre piani sbriciolati da un congegno che accascia la Banca Nazionale dell'Agricoltura come fosse cartapesta, nel cuore di piazza Fontana.
“La vedova “ - ma lei detesta che la chiamino così - affida molti dolorosi ricordi a Piero Scaramucci, giornalista Rai: la precauzione di chi entra in una cristalleria e il dito pigiato sul registratore, per un racconto setacciato su duecento pagine, e lungo qualche mese strappato al 1981.
C'è un po' di tutto, e molte sorprese. C'è la Milano bambina, del dopoguerra, coi cordoli di pietra antica, gli abbaini, l'aroma di ragù lungo i ballatoi, nelle vecchie case di ringhiera, con le porte sempre aperte, anche di notte, e i piccini a rincorrersi nei cortili umidi, figli un po' di tutti.
C'è un marito che s'infila in politica perché “non puoi sapere quanto può essere noioso un uomo in casa, quando hai un mucchio di cose da fare e vuole aiutarti”.
C'è una donna tignosa, dura e sincera, che sferruzza, in un angolo del tinello, e ogni tanto alza la testa e dice la sua, mentre una banda arlecchinata di uomini tenta di allacciare la propria maglia, con gomitoli politici di tutti colori (fascisti, antifascisti, socialisti, comunisti, anarchici) e poi tuffa le baruffe verbali in un pasto fumante, a fine serata.
Ci sono notizie micidiali, che ti atterrano nella notte inerme, e non hai che una vestaglia sottile e una cornetta dentro cui strilli “Perché non mi avete avvisata?”, mentre il commissario Calabresi esita, all'altro capo del telefono: “Ma sa, signora, abbiamo molto da fare”.
Ci sono due bambine sotto il loro grembiule, Silvia e Claudia, aggrappate alle braccia di Licia – la sua dignità stretta nel tailleur – il primo giorno di scuola. E' il millenovecentosettantuno: ad attenderle, i flash dei fotografi.
Eppoi ci sono parole come bombe d'inchiostro, che strillano sulla carta “suicidio”. E il rosario delle udienze, in processi troppo lunghi. Altre morti, così celebri da cancellare il tuo lutto, altri ordigni, molte bugie. Denunce che non s'arrendono.
“Devo essermi presa una cotta per qualcuno e per farmela passare sono andata in gita con delle mie amiche”, racconta Licia, quando il cronista le chiede il ricordo di qualcosa di rilevante, nei dieci anni dopo il lutto.
“Volevi rimanere fedele a Pino?”.
“No, non volevo più soffrire”.
Infine, c'è quel 9 maggio del 2009.
Due vedove, sullo stesso volo, per raggiungere il salone dei Corazzieri al Quirinale, nel giorno della memoria: una carezza, dopo troppi pugni, ai familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.
“Che effetto ti ha fatto, questo contatto?”, chiede il cronista, a proposito dell'incontro con Gemma Calabresi.
“I fatti sono fatti, le famiglie non c'entrano. Le famiglie non hanno nessuna responsabilità dei fatti”, risponde.
Ottantuno anni, due figlie ora grandi, irriducibile nel riaccompagnare alla porta molte lusinghe politiche, un cerotto alle emozioni incollato da quarant'anni.
Lei – che l'avvocato Carlo Smuraglia ricorda come “Un'eccezionale lezione di rigore e fermezza” – conclude con la sensazione di “uno Stato di diritto”, lì dentro, nelle sale del Quirinale, in quella giornata così particolare, sebbene serotina.
-“E quando sei uscita?”, chiede Scaramucci.
-“Un'altra Italia. Si respira un'altra aria fuori. Diversa, molto, molto peggiore. Un'Italia di nessun diritto”.