giovedì 10 luglio 2008

DALLA PARTE DI ELUANA


Quando ho sentito Beppino Englaro parlare di “stato di diritto”, “rispetto della trasparenza”, “limpidezza nella procedura”, nel garantire una morte che in realtà si è imbellettata di finta vita per 16 anni, nella carne di sua figlia Eluana, ho provato profonda vergogna.
Vergogna per me, e il sultanato di volgarità che domina sovrano in un paese che ha sbriciolato le illustri radici della sua genesi.
A ciglio asciutto Beppino parlava della figlia come della “creatura più splendida che abbia mai conosciuto”, di “purosangue della libertà”, e credo che fosse sincero. Che non vi fosse, nelle sue parole, nessuna determinazione pietistica, nessuna dissimulazione o deformazione.
Questa ragazza, che pur solo dai rullini spesi per lei, schizzava giovane, bella, quasi sfacciata nella sua galvanizzazione esistenziale, prima che la morte le cucisse addosso questo surrogato dell’esserci, questa ragazza – dicevo – era perfino indecente nel suo essere presente a se stessa. Pareva una di quelle rarissime ventenni che alla sua età era già diventata sé, e lo sapeva.
“Quando la vedo, spaccherei il mondo”, diceva il padre, dopo la malattia. Quando monsignor Fisichella parla di “azione d’eutanasia” (riferendosi alla sentenza della corte d’appello che consente alla famiglia di strapparle di dosso quella finta vita) e di impugnazione di sentenza, credo che dimentichi un elemento determinante. Quel passo indietro al tempio della morte, che anche un uomo consacrato di Dio deve fare. Lì dentro né noi, né loro possono entrarci. E’ oltre, è troppo. Ci sono solo 16 anni, una ragazza oltre il suo corpo, e un babbo che non urla, ma sussurra, “io sono mia figlia”.