lunedì 2 luglio 2012

Ciao 36, ciao!


Addio a questo trentaseiesimo anno che si è aperto con un sogno in frantumi, umano e professionale,
di poter crescere un giornale “diverso”, con chi guardasse nella tua stessa direzione.
Addio alle carte legali, alle promesse rotte, al dover sempre ricominciare daccapo, come una farfalla che – chissà perché – è condannata a rompere lo stesso bozzolo e volarsene via.
Addio al ghiaccio nelle vene di un inverno troppo lungo.
All'istinto che si piglia scorciatoie sull'abulia, perché si è pur sempre latori di dna lontani, di una mitologia impigliata in grandi donne combattenti. E non resta che rialzarsi. Sempre. Quando ci si vorrebbe arrendere e lasciarsi morire.
Addio all'amore frettoloso, consumistico, quello che pronuncia parole molto più grandi della vita, e ha fondamenta di cartone. Non mi piace. Non lo voglio. Non lo cerco.
Addio alle redazioni mutilate pure dell'indignazione: il poco che ci resta e che sembra ugualmente spianato dalla convenienza.
Addio al lavoro così incerto, spietato, ingiusto. Che riserva asole di cielo a chi sa fare tutto, e braccioli robusti su cui riposare a chi non ha voglia d'imparare niente.
Addio a questa politica, così terribilmente responsabile d'aver squalificato le nostre intelligenze, in una gara in corto-circuito, dove si gioca al ribasso.
Addio al cambiamento che procede a conati, perché questo è un paese malato, e all'epitelio occorre sbarazzarsi della crosta, per rifiorire. Ma la crosta è ancora così disperatamente attaccata.
Addio a questa valigia piombata che mi pare d'aver trascinato con forza e disperazione lungo tutto l'anno.
Ringrazio il mio irriducibile coraggio che mi conduce con un sorriso fino a qui.
Ringrazio la mia ironia che mi ha reso leggero l'indigeribile.
Ringrazio l'infinità di amici, familiari, conoscenti che mi hanno sollevato quella dannata valigia in un passaggio troppo ripido di quest'anno. E mi hanno sorpreso e commosso.
Ringrazio le risate e gli occhi di Margherita: così trasparenti che a volte mi pare sia materia onirica e non la donna vera, forte, dolce, sempre presente che è lei, e di cui posso fidarmi.
Ringrazio Marzio, la sua profonda solidità che non mi lascia mai sola.
Ringrazio Leonardo, mio nipote, che è nato lo stesso giorno in cui mi è arrivata una lettera molto dura e ho pensato che fosse, in qualche modo, una carezza nel buio.
Ringrazio la mia Gallura. Il mio mare, la mia cura. Che a volte è bello anche stringere gli occhi, se il motivo è non riuscire a sostenere tanta meraviglia.
Ringrazio Marta, Silvia e Diana, che lo so che ce ne andremo lontano insieme.
Ringrazio il brutto che verrà, che è quello che mi ha insegnato a impugnare così bene le armi con cui non arrendersi.
E ringrazio il buono, se vorrà arrivare.
E sarà una festa.

Ciao 36, ciao.

giovedì 6 ottobre 2011

CHE COLPA NE ABBIAMO NOI?


I tempi senza miti di cui non abbiamo colpa.
Sotto la storia, in attesa che qualche primate
chiuda il cancello – una buona volta -
dietro la gora in cui siamo annegati.

Braccati da una memoria che sfolla,
e ripropone la stessa consueta notte
Che non trascorre più.

Che male abbiamo fatto
per essere schiacciati nell'angolo
di un nulla masticato

così simile a se stesso,
nella propria afasia.

Gli stessi volti,
le stesse parole
si siedono uguali,
e non nutrono oltre
il narcisismo di chi le pronuncia
dietro a vetri catodici ormai rotti

Stanche oleografie
per teste tutte uguali,
azzoppate dall'oggi

Mentre gli anni trascorrono
sopra ipotesi di felicità

Che male abbiamo fatto
se non siamo leoni

se ci si spezzano le unghie
contro i limiti
le trappole emotive
i vortici che riportano al punto di partenza

Ché basterebbe – in fondo – ciascuno
con la propria quota di coraggio
dire un “no” in più

per spaccare
– come scriveva Kafka –
quel mare ghiacciato dentro di noi
Fuori di noi.

mercoledì 8 giugno 2011

Uolter, ma non dovevi andare in Africa?


Si chiama “L'inizio del buio”. Titolo che si apre a un orizzonte d'ottimismo, in effetti. Walter “Uolter” Veltroni ci riprova e presenta, nel salotto di Vespa, la sua ultima fatica letteraria. Di cui, detto con franchezza, non si sentiva granché l'esigenza. “Quando l'Italia perse l'innocenza, a causa della televisione”, è un po' la sintesi del suo pamphlet. Quella in cui Uolter, sfilata la veste di politico e indossata quella da vecchio cronista, presidia i talk show. Gli anni sono quelli di un'Italia ancora ferita dal brigatismo: 11 giugno del 1981. Mentre il tg spara la tragica cronaca del pozzo che si è risucchiato Alfredino Rampi, nella campagna di Vermicino (Frascati), a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci, 25 anni, viene acciuffato da un gruppo delle BR e crivellato con 11 colpi di arma da fuoco, in un casolare abbandonato nella campagna romana, dopo 55 giorni di prigionia e un processo sommario. La sua colpa? Essere il fratello di Patrizio Peci, primo pentito delle Brigate. Circostanze drammatiche, certo, cui guardiamo con estremo rispetto nei confronti delle famiglie delle vittime. Il punto, però, qui è un altro. Che ci vuole dire Uolter?

L’anno evocato nel libro era l'ultimo da consigliere comunale di Roma, nelle liste del Pci, eletto nel '76, a ventun anni. Dopo un'onorata carriera da figiciotto, come segretario dell'organizzazione giovanile del partito comunista. Insomma, ne deve aver viste, in quegli anni, il giovane Uolter. Eppure ora, sorprendentemente incanutito (e ci viene in mente il vecchio adagio andreottiano sul logorio del potere) rievoca quegli anni in una commistione di stupore, indignazione, sorpresa e buonismo: come un novello Candide, il personaggio voltairiano affetto da eccesso di ingenuità, e protagonista del “migliore dei mondi possibili”. Dopo la ripresa del Pd, alle amministrative, pare di assistere al “ritorno dei morti viventi”, giusto per esercitarsi in una citazione cinematografica, quella in cui Uolter è così provetto. Nel web, poi, è tutto un rilancio di interrogativi: «Ma non doveva andarsene in Africa?». Nella più citabile delle proposte, gli si offre un biglietto di sola andata con un messaggio più che chiaro: «Rottamiamolo».

Ma... ve lo ricordate Walter? Nel 2009, dopo il fallimento del suo progetto di un Pd disintossicato dalle fronde radicali (esclusa l'Idv) si dimetteva da segretario del partito, chiedendo addirittura scusa: «Occorreva dar vita ad un partito nuovo, mai visto nella storia italiana del dopoguerra. Io non ci sono riuscito ed è per questo che lascio e chiedo scusa».
Poi aggiungeva: «È una scelta dolorosa ma giusta, anche per mettere al riparo il Pd da ulteriori tensioni e logoramenti. Era chiaro già nei giorni scorsi che si dovesse aprire una pagina nuova». La pagina nuova è dichiarata nel 2010, per l'esattezza il 18 novembre (Corriere della Sera). «Sono per un'alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose. Non invoco né l'autosufficienza né l'isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un'alternativa fondata su un'idea d'Italia, su un messaggio positivo». Ah, ecco. Ma non doveva essere un partito unico?

Qualche mese prima, settembre 2010, a Gioia rivendicava il suo primato nel Pd, con una certa contrizione nell’essere stato quasi “dimissionato”: «Ultimamente ho girato l’Italia per partecipare alle feste del Pd. E ho misurato un affetto più grande di prima. Rivedere i luoghi della mia campagna elettorale e ripensare a quelle piazze piene, a quella passione, fa male. Ma so di essere arrivato fin dove era possibile arrivare, di aver conquistato il risultato migliore della storia del riformismo italiano e di averlo fatto nel momento più difficile, dopo l'esperienza dell’Unione e delle sue intollerabili divisioni». Appunto. Ma allora perché tornare dopo un congedo così glorioso?

lunedì 19 luglio 2010

SUORLETIZIA DIGITALE!


Siore e siori, ecco a voi Teleletizia. Canale 33. Digitale terrestre.
Paul Steiger tremi: 3 megabyte s’agitano, da poco meno d’un mese, nel primo canale televisivo prodotto, gestito, occupato dal sovrano cittadino dell’ex capitale morale d’Italia, Milano.
Trecento mila euro in meno nel paniere della petrol-sindachessa (a suo carico, il costo dell’intera operazione) e un’autorizzazione alla messa in onda, fresca fresca, dal Ministero dello Sviluppo Economico, dipartimento Comunicazione.
Milano 2015, il nome della creatura. Locuzione anodina su cui convergono due anni di baruffe politiche, tramenii di poltrone, passaggi di nomina che come sarmenti si sono avvitati attorno alla parolina con cui le nostre mandibole si dimenano da un po’: EXPO.
Buona, appunto, solo per esercizi ginnici degli ossi mascellari e arrampicate concettuali sulle pagine dei giornali. Poco importa – poi - che si entri negli assessorati regionali per scoprire con sgomento, a due anni dall’aggiudicazione del merito, che “Non ci abbiamo un progetto, uno”.
Neppure un’incipriata semantica con cui truccare l’acedia.
Comunque, dicevamo, il canale della Moratti.
Fateci un salto.
Dopo tanto almanaccare, qualche salace spin doctor a suo servizio deve aver pensato: “Come minchia facciamo a farle rivincere le elezioni nonostante l’ostruzionismo della Lega, il bagno di sangue nel pdl e quattro rovinosi anni di gestione, attraversati da scandali che avrebbero atterrato un basilisco? (Accontentati tutti i palati: dai derivati alle mazzette infilate nel pacchetto di Marlboro di Milko Pennisi, presidente della commissione Urbanistica a Palazzo Marino: concussione in flagranza di reato – ah! Gli anni Ottanta…).
Ed ecco il bolzone che sfonderà la campagna elettorale: “Ma certo! Il canale digitale!”.
“La Milano delle piccole cose”, è lo slogan programmatico che intende sciogliere la paresi nella quale l’ingessato primo cittadino sembra essersi incartato nell’immaginario collettivo.
Ma qualcosa dev’essere sfuggito alla macchina comunicativa.
La sciura Moratti, apparecchiata in una foggia non dissimile da quella che squadernerebbe a una prima alla Scala (lobi e anulari smeraldati, lunghe unghie rosso laccate più simili ad artigli, in verità), flaneggia nei mercati rionali con la sua Gucci al braccio; domanda, pungola sui disservizi, mentre consegna cinque euri cinque, a un banco, per l’acquisto di due teli da cucina (Mah..).
Mentre una corpulenta massaia le si getta contro arrotando ingiurie a proposito di qualcosa come “lo scandalo del sangue infetto” - e un mancato risarcimento, oltre a sfacciate porte di assessorati sbattute in faccia - Suor Letizia, con la stessa sinuosità di un traliccio di cemento, sibila un mesto: “Ma non è colpa del comune”, per poi appuntarsi, solerte, le generalità della tapina su uno straccio di carta.
Intanto, il boiardo Poletti (sì, quello di Telelombardia, dimessosi da deputato) redarguisce la massaia allo strillo di “Ma lei è troppo polemica!”.
Si è presi quasi da tenerezza nel vedere la petrol-sindaca stringere mani, assicurare l’aggiustamento delle buche, appuntarsi nomi, carezzare l’ispido pelo delle contestazioni con la stessa convinzione con cui un’entreneuse strillerebbe dev’essere illibata, in un boudoir.
Mi segnalano che vi è anche la versione “Sindachessa in casa di riposo per artisti”, “Sindachessa in campo rom”, “Sindachessa in shopping per nipotame durante notte bianca”, “Sindachessa sulla 90” (che è – per chi non fosse di Milano – l’autobus sul quale, se tutto va bene, si viene stuprati).
Ma la variante nella quale sono inciampata io è la cronista che in viale Padova interroga - in una desueta commistione di italiano e dialetto padano - “Il Giampi”. Un’istituzione, nel quartiere: cento per cento di milanese doc, esercente storico della via e in buoni rapporti con “quelli di razza diversa” (cit.) che lavorano accanto a lui. Tradotto: una manciata di maghrebini che sorridono al microfono, berciando che i rapporti con i residenti sono ottimi e l'ostico processo d'integrazione è roba per riempire le scalette dei tg.
Credo che l’improbabile collega sia da ascriversi alla formula “pool di giornalisti fresco e dinamico", che si legge sul sito di presentazione del canale.
Ah, dimenticavo! Le riprese televisive, come giustamente ricorda Sarah ((http://www.milanotoday.it/blog/sarah/milano-2015-il-canale-della-moratti-sul-digitale.html)
sono parimenti assimilabili a quelle di “The Blair Witch Project”.
Mio nipote di due anni le saprebbe fare meglio.

domenica 25 aprile 2010

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO DI PERUGIA 2010


http://ijf10.ilcannocchiale.tv/video/2184

sabato 30 gennaio 2010

"LA VERITA' - VI PREGO - SULL'ANARCHICO PINELLI"


Ottobre 1952. Licia ha ventiquattro anni. Pino dieci mesi secchi in meno.
“Perché intendete studiare esperanto?”, chiede l'insegnante, al corso in cui entrambi – senza conoscersi – si sono iscritti.
Licia non esita in una replica che le aggiudica un giovane sconosciuto, “svelto come un razzo” ad acconciarsi accanto a lei, nel banco.
Poi c'è una lunga passeggiata a piedi, da via Manzoni fino a viale Monza, in cui i due giovani possano acciuffare quote di territorio emotivo, prima di scambiarsi un bacio, sei mesi dopo.
Confesso: mi era sfuggito “Una storia quasi soltanto mia” (uscito lo scorso settembre per la Feltrinelli) cui io riassegnerei il titolo, “La versione di Licia”.
Licia Pinelli: per tutti - per sempre - “la vedova dell'anarchico”. Il giovane che studiava esperanto perché “se gli uomini si conoscessero non ci sarebbero più guerre”, volato giù dal quarto piano della questura di Milano, qualche minuto dopo la mezzanotte del 15 dicembre. Siamo nel '69. Tre giorni prima, diciassette morti e tre piani sbriciolati da un congegno che accascia la Banca Nazionale dell'Agricoltura come fosse cartapesta, nel cuore di piazza Fontana.
“La vedova “ - ma lei detesta che la chiamino così - affida molti dolorosi ricordi a Piero Scaramucci, giornalista Rai: la precauzione di chi entra in una cristalleria e il dito pigiato sul registratore, per un racconto setacciato su duecento pagine, e lungo qualche mese strappato al 1981.
C'è un po' di tutto, e molte sorprese. C'è la Milano bambina, del dopoguerra, coi cordoli di pietra antica, gli abbaini, l'aroma di ragù lungo i ballatoi, nelle vecchie case di ringhiera, con le porte sempre aperte, anche di notte, e i piccini a rincorrersi nei cortili umidi, figli un po' di tutti.
C'è un marito che s'infila in politica perché “non puoi sapere quanto può essere noioso un uomo in casa, quando hai un mucchio di cose da fare e vuole aiutarti”.
C'è una donna tignosa, dura e sincera, che sferruzza, in un angolo del tinello, e ogni tanto alza la testa e dice la sua, mentre una banda arlecchinata di uomini tenta di allacciare la propria maglia, con gomitoli politici di tutti colori (fascisti, antifascisti, socialisti, comunisti, anarchici) e poi tuffa le baruffe verbali in un pasto fumante, a fine serata.
Ci sono notizie micidiali, che ti atterrano nella notte inerme, e non hai che una vestaglia sottile e una cornetta dentro cui strilli “Perché non mi avete avvisata?”, mentre il commissario Calabresi esita, all'altro capo del telefono: “Ma sa, signora, abbiamo molto da fare”.
Ci sono due bambine sotto il loro grembiule, Silvia e Claudia, aggrappate alle braccia di Licia – la sua dignità stretta nel tailleur – il primo giorno di scuola. E' il millenovecentosettantuno: ad attenderle, i flash dei fotografi.
Eppoi ci sono parole come bombe d'inchiostro, che strillano sulla carta “suicidio”. E il rosario delle udienze, in processi troppo lunghi. Altre morti, così celebri da cancellare il tuo lutto, altri ordigni, molte bugie. Denunce che non s'arrendono.
“Devo essermi presa una cotta per qualcuno e per farmela passare sono andata in gita con delle mie amiche”, racconta Licia, quando il cronista le chiede il ricordo di qualcosa di rilevante, nei dieci anni dopo il lutto.
“Volevi rimanere fedele a Pino?”.
“No, non volevo più soffrire”.
Infine, c'è quel 9 maggio del 2009.
Due vedove, sullo stesso volo, per raggiungere il salone dei Corazzieri al Quirinale, nel giorno della memoria: una carezza, dopo troppi pugni, ai familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.
“Che effetto ti ha fatto, questo contatto?”, chiede il cronista, a proposito dell'incontro con Gemma Calabresi.
“I fatti sono fatti, le famiglie non c'entrano. Le famiglie non hanno nessuna responsabilità dei fatti”, risponde.
Ottantuno anni, due figlie ora grandi, irriducibile nel riaccompagnare alla porta molte lusinghe politiche, un cerotto alle emozioni incollato da quarant'anni.
Lei – che l'avvocato Carlo Smuraglia ricorda come “Un'eccezionale lezione di rigore e fermezza” – conclude con la sensazione di “uno Stato di diritto”, lì dentro, nelle sale del Quirinale, in quella giornata così particolare, sebbene serotina.
-“E quando sei uscita?”, chiede Scaramucci.
-“Un'altra Italia. Si respira un'altra aria fuori. Diversa, molto, molto peggiore. Un'Italia di nessun diritto”.

domenica 28 giugno 2009

GABRIELE

In uno dei miei primi ricordi c’è lui, Gabriele. Ha intorno ai tre anni, e una minuta salopette blu che a fatica ne contiene le intemperanze. Era scatenato, da bambino. Lui e Andrea, suo fratello di qualche spicciolo più grande, li chiamavamo “Attenti a quei due”. Erano due ragazzini impetuosi, famelici, irruenti. E le loro bricconate strappavano, però, sempre qualche sorriso. Nella grande, generosa campagna della zia Lidia, la truppa colorata di cugini trovava il suo proscenio ottimale per svuotare gli zaini giovanili di monellerie e birichinate. In una di queste Gabrielino - perché così lo chiamavamo tutti – fu lanciato da suo fratello, inavvertitamente, contro un forcone che avevamo scovato nella casetta degli attrezzi. Gli adulti, ignari, chiacchieravano sul patio di casa, poco più in là. Dopo un primo silenzio – agghiacciati per il pericolo sventato d’aver consegnato la creatura al tridente rugginoso - noi cugini abbiamo iniziato a ruzzolare tra i fili di fieno, annientati dalle risate. E Gabrielino, probabilmente troppo piccolo per comprendere il pericolo corso, rideva ancora più forte. La sua risata è una delle cose che mi fa più male, ora che non c’è più, perché non era comune. Solitamente lo scoppio percorre un tratto che dal ventre raggiunge la bocca. E nel tragitto sciupa un buon quoziente di spontaneità. In Gabriele no. Il viaggio della sua risata era brevissimo. Direttamente dal cuore. E si sentiva.
Mi ricordo pavimenti arlecchini di Lego, nella casa dei nonni. Lego che cascavano dalle scale, Lego che ci tiravamo addosso. E poi macchinine, duelli a quattro con Gabriele sulle spalle, chiome strappate in furiosi combattimenti tra bambini. Risate, tantissime risate. Cugini di tutte le età. Giochi. L’odore dell’infanzia, il gusto dell’infanzia, contro palati ormai adulti, ha il sapore di Gabriele. Ed era quella la felicità.
Poi, per interruzioni imprevedibili che le vite si divertono a concedersi, Gabriele me lo sono ritrovato alto, bello, adulto. Però, la risata no, era sempre quella. Abbiamo trascorso insieme lunghe serate d’estate, dai miei, a Santa Teresa di Gallura - un posto che lui amava molto - a confidarci cattiverie all’orecchio, sulla mia compagnia. Rigorosamente in sassarese. “Cess.. mì, abbozza”, “Chi fea quella” , “Chi maccu ghissu”(“Guarda, che brutta quella”, “Che scemo questo”). E giù a ridere. Quando rientravamo a casa, alle tre, alle quattro del mattino, voleva sempre sgranocchiare banane. Ne andava pazzo. Credo gli servissero per i muscoli in cui il suo corpo bambino, nel frattempo, si era felicemente trasformato. Perché era bello, mio cugino. Era alto, muscoloso, forte. Faceva surf, giocava a golf, andava in moto, si tuffava. Era curioso, e la vita se la beveva fino all’ultimo sorso. Non aveva paura. Non s’era prestato all’esercito di “bamboccioni” che se ne stanno in Italia a gingillarsi tra le lamentele di un paese ingeneroso con i giovani. Senza molte cerimonie, subito dopo la laurea a Sassari, aveva preso e se ne era andato a vivere in Spagna. Aveva imparato la lingua, il lavoro e si era innamorato di Inès. Gli piaceva la vita in cantiere e io l’ho sempre segretamente invidiato – ma non glielo ho mai detto – per il suo coraggio. Non aveva affidato la sua vita ad altri. Se l’era disegnata come voleva lui. E credo che per questo fosse felice. Mi ha mandato delle lunghe mail (scritte con una proprietà di linguaggio che mi ha sempre colpito). Mi raccontava dei nuovi incontri, del lavoro, della Spagna. Non c’erano mai lamentele. Alle difficoltà, opponeva un granitico entusiasmo. Lo ammiravo molto per questo. Il 3 luglio dello scorso anno, il giorno del mio compleanno, era qui a Milano. Mia madre mi regalò un televisore. Gabriele me lo trasportò, a piedi, fino a casa. E io ero così orgogliosa di quel cugino alto, bello, generoso, che mi camminava accanto. Quando ci siamo iscritti a FB, ogni tanto giungevano questi straordinari reportage fatti di foto, sorrisi e luoghi incantevoli che aveva scovato. Si divertiva, e si vedeva. Questa precisa cosa (e non è marginale) - il fatto che fosse felice - è ciò a cui mi aggrappo per rendere meno amara la maledetta pasticca che dovrò ingoiare da oggi in poi: l’accettare di svegliarmi in un giorno in cui lui non c’è più, perché uno stupido biposto Pecnam 96 golf, un aeroplanino di carta, ha opposto le ragioni della gravità alla sua vita. Non sentire più il suo “Cugì”. O “Ciao, Pa’ ”, e la sua risata bambina.

paola