In uno dei miei primi ricordi c’è lui, Gabriele. Ha intorno ai tre anni, e una minuta salopette blu che a fatica ne contiene le intemperanze. Era scatenato, da bambino. Lui e Andrea, suo fratello di qualche spicciolo più grande, li chiamavamo “Attenti a quei due”. Erano due ragazzini impetuosi, famelici, irruenti. E le loro bricconate strappavano, però, sempre qualche sorriso. Nella grande, generosa campagna della zia Lidia, la truppa colorata di cugini trovava il suo proscenio ottimale per svuotare gli zaini giovanili di monellerie e birichinate. In una di queste Gabrielino - perché così lo chiamavamo tutti – fu lanciato da suo fratello, inavvertitamente, contro un forcone che avevamo scovato nella casetta degli attrezzi. Gli adulti, ignari, chiacchieravano sul patio di casa, poco più in là. Dopo un primo silenzio – agghiacciati per il pericolo sventato d’aver consegnato la creatura al tridente rugginoso - noi cugini abbiamo iniziato a ruzzolare tra i fili di fieno, annientati dalle risate. E Gabrielino, probabilmente troppo piccolo per comprendere il pericolo corso, rideva ancora più forte. La sua risata è una delle cose che mi fa più male, ora che non c’è più, perché non era comune. Solitamente lo scoppio percorre un tratto che dal ventre raggiunge la bocca. E nel tragitto sciupa un buon quoziente di spontaneità. In Gabriele no. Il viaggio della sua risata era brevissimo. Direttamente dal cuore. E si sentiva.
Mi ricordo pavimenti arlecchini di Lego, nella casa dei nonni. Lego che cascavano dalle scale, Lego che ci tiravamo addosso. E poi macchinine, duelli a quattro con Gabriele sulle spalle, chiome strappate in furiosi combattimenti tra bambini. Risate, tantissime risate. Cugini di tutte le età. Giochi. L’odore dell’infanzia, il gusto dell’infanzia, contro palati ormai adulti, ha il sapore di Gabriele. Ed era quella la felicità.
Poi, per interruzioni imprevedibili che le vite si divertono a concedersi, Gabriele me lo sono ritrovato alto, bello, adulto. Però, la risata no, era sempre quella. Abbiamo trascorso insieme lunghe serate d’estate, dai miei, a Santa Teresa di Gallura - un posto che lui amava molto - a confidarci cattiverie all’orecchio, sulla mia compagnia. Rigorosamente in sassarese. “Cess.. mì, abbozza”, “Chi fea quella” , “Chi maccu ghissu”(“Guarda, che brutta quella”, “Che scemo questo”). E giù a ridere. Quando rientravamo a casa, alle tre, alle quattro del mattino, voleva sempre sgranocchiare banane. Ne andava pazzo. Credo gli servissero per i muscoli in cui il suo corpo bambino, nel frattempo, si era felicemente trasformato. Perché era bello, mio cugino. Era alto, muscoloso, forte. Faceva surf, giocava a golf, andava in moto, si tuffava. Era curioso, e la vita se la beveva fino all’ultimo sorso. Non aveva paura. Non s’era prestato all’esercito di “bamboccioni” che se ne stanno in Italia a gingillarsi tra le lamentele di un paese ingeneroso con i giovani. Senza molte cerimonie, subito dopo la laurea a Sassari, aveva preso e se ne era andato a vivere in Spagna. Aveva imparato la lingua, il lavoro e si era innamorato di Inès. Gli piaceva la vita in cantiere e io l’ho sempre segretamente invidiato – ma non glielo ho mai detto – per il suo coraggio. Non aveva affidato la sua vita ad altri. Se l’era disegnata come voleva lui. E credo che per questo fosse felice. Mi ha mandato delle lunghe mail (scritte con una proprietà di linguaggio che mi ha sempre colpito). Mi raccontava dei nuovi incontri, del lavoro, della Spagna. Non c’erano mai lamentele. Alle difficoltà, opponeva un granitico entusiasmo. Lo ammiravo molto per questo. Il 3 luglio dello scorso anno, il giorno del mio compleanno, era qui a Milano. Mia madre mi regalò un televisore. Gabriele me lo trasportò, a piedi, fino a casa. E io ero così orgogliosa di quel cugino alto, bello, generoso, che mi camminava accanto. Quando ci siamo iscritti a FB, ogni tanto giungevano questi straordinari reportage fatti di foto, sorrisi e luoghi incantevoli che aveva scovato. Si divertiva, e si vedeva. Questa precisa cosa (e non è marginale) - il fatto che fosse felice - è ciò a cui mi aggrappo per rendere meno amara la maledetta pasticca che dovrò ingoiare da oggi in poi: l’accettare di svegliarmi in un giorno in cui lui non c’è più, perché uno stupido biposto Pecnam 96 golf, un aeroplanino di carta, ha opposto le ragioni della gravità alla sua vita. Non sentire più il suo “Cugì”. O “Ciao, Pa’ ”, e la sua risata bambina.
paola
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