ITALIOTI
Che cosa siamo? Italioti, non italiani.
Cinquant’anni sono pochi spiccioli di storia perché la struttura democratica risulti, allo stato attuale, ben cementata e possa moltiplicare le sue cellule “sane”. Il sistema fa acqua da tutte le parti: ne abbiamo esempi quotidie. Io mi sono fatta l’idea che di italiano – nell’accezione collettiva, e comunitariamente sentita del termine – in realtà non abbiamo niente. Se l’italianità a cui penso non è la pellicola sottile che si accende attorno a un pallone (questa è un’altra storia e non c’è giudizio nel merito). La nostra italianità è incollata in una miriade frammentata di regionalità radicatissime, a dispetto della globalizzazione di cui si parla in maniera così inflazionata e spesso inopportuna. I fenomeni migratori a spasso per lo stivale, in realtà, non hanno concorso davvero a un profondo processo di integrazione. I milanesi sono rimasti asburgici nelle vene e nella mentalità, e con la cultura mediterranea (con tutto il suo apparato di senso dell’onore, di dignità, del riequilibrio dei conti che è poi degenerato, esondando nei fenomeni particolaristici delle criminalità organizzate del sud) non hanno nulla a che spartire. Siamo rimasti quelli delle Signorie, siamo rimasti quelli dei giudicati in Sardegna, siamo rimasti quelli borbonici, delle repubbliche marinare, del Regno di Sardegna, quelli austro-ungarici. Ciascuno con le proprie violentissime prerogative. Io ho cambiato undici città dai tre anni ai trenta e ovunque andassi, su e giù per il paese, non c’è mai stato nessuno che non mi facesse rilevare la mia disparità e difformità in quanto sarda. A volte in senso arricchente, altre discriminante. Al liceo Parini di Milano (dico, il Parini-quello della “Zanzara” per intenderci) i professori mi chiedevano – seriamente – se in Sardegna avessimo la televisione. Erano i primi anni Novanta.
Ci lambicchiamo tanto per venire a capo delle laceranti distanze cui ci ha messo di fronte questa ondata rinnovata di migrazione extra italiana quando non siamo ancora riusciti a risolvere i nostri regionalismi.Il milanese è rimasto milanese, il siciliano è profondamente siciliano, così il veneto, e il napoletano (e la lista potrebbe proseguire infinitamente). Siamo tremendamente individualisti. Se a Messina costruiscono un ponte del tutto inutile perfino per i pendolari che utilizzano i traghetti, perché dovrebbe moltiplicare in un insensato gioco dell’oca stradale il loro percorso quotidiano, sono affari loro. A noi milanesi (“noi” in quanto naturalizzati) non ce ne frega niente. Pazienza se sono soldi pubblici, anche nostri. Se nel Mugello hanno sventrato i monti mandando in palla le falde acquifere (la popolazione locale ha avuto i rubinetti secchi per anni) e il sistema idrogeologico del territorio solo per guadagnare 10 minuti alla tratta della TAV Bologna-Firenze (e io certo non sono ideologicamente contraria ai treni super-veloci, anzi!), è affar loro. Al resto d’Italia non gliene frega niente. Se in Campania i bidoni scoppiano d’immondizia, e una città è diventata strame, “che se la tenessero, peggio per loro”. Cioè, è affar campano, mica italiano. Basti pensare al caso Alitalia. La guerriglia di rivendicazioni territoriali (anche piccine) che s’è scatenata nella tratta psicologica (più che geografica) Fiumicino-Malpensa ne è un chiaro esempio. Ognuno se ne stia a casa sua. Italioti, siamo. La travolgente cascata scatologica (altresì detta “di merda”, tanto per essere espliciti) che ha colto il mondo del lavoro schiacciando la generazione attuale dei trentenni (e non solo) in questa degenerazione costante che si sta mangiando diritti, stipendi e dignità, manco quella è servita. Neppure se gli mettono le mani in tasca l’italiota s’aggrega e fa collettività per salvare il culo a tutti. Se ci si spacca la faccia e le tibie allo stadio perché tu sei juventino e io sono interista, un motivo ci sarà. Intendo storico, culturale, e non solo sociale. Eppure mi chiedo, siamo stati il paese dei moti risorgimentali, che ha schizzato sangue per unificare tutte le tessere in-incastrabili di questo puzzle collettivo. Siamo la culla geografica dei ceppi culturali più evoluti del mondo. Perché qualche residuo non è volato fino a noi, oggi? Come abbiamo fatto a ridurci in questo stato? I galantuomini alla Ferruccio Parri - che non usciva più dal suo ufficio, come presidente del consiglio, mangiando solo pane e salame, per mesi, per ricomporre i pezzi di un’Italia scoppiata - o quelli alla Alcide De Gasperi (al di là di ogni colore politico o ideologizzazione, non me ne frega niente di quello) dove cacchio sono finiti? Come ricostruire il sistema che li ha generati? E’ solo una questione di tempo? L’anomalia nazionale ha solo bisogno di altri decenni, perché noi si possa diventare finalmente “ITALIANI”, e si possa lasciare indietro la muta di “ITALIOTI”?
Che cosa siamo? Italioti, non italiani.
Cinquant’anni sono pochi spiccioli di storia perché la struttura democratica risulti, allo stato attuale, ben cementata e possa moltiplicare le sue cellule “sane”. Il sistema fa acqua da tutte le parti: ne abbiamo esempi quotidie. Io mi sono fatta l’idea che di italiano – nell’accezione collettiva, e comunitariamente sentita del termine – in realtà non abbiamo niente. Se l’italianità a cui penso non è la pellicola sottile che si accende attorno a un pallone (questa è un’altra storia e non c’è giudizio nel merito). La nostra italianità è incollata in una miriade frammentata di regionalità radicatissime, a dispetto della globalizzazione di cui si parla in maniera così inflazionata e spesso inopportuna. I fenomeni migratori a spasso per lo stivale, in realtà, non hanno concorso davvero a un profondo processo di integrazione. I milanesi sono rimasti asburgici nelle vene e nella mentalità, e con la cultura mediterranea (con tutto il suo apparato di senso dell’onore, di dignità, del riequilibrio dei conti che è poi degenerato, esondando nei fenomeni particolaristici delle criminalità organizzate del sud) non hanno nulla a che spartire. Siamo rimasti quelli delle Signorie, siamo rimasti quelli dei giudicati in Sardegna, siamo rimasti quelli borbonici, delle repubbliche marinare, del Regno di Sardegna, quelli austro-ungarici. Ciascuno con le proprie violentissime prerogative. Io ho cambiato undici città dai tre anni ai trenta e ovunque andassi, su e giù per il paese, non c’è mai stato nessuno che non mi facesse rilevare la mia disparità e difformità in quanto sarda. A volte in senso arricchente, altre discriminante. Al liceo Parini di Milano (dico, il Parini-quello della “Zanzara” per intenderci) i professori mi chiedevano – seriamente – se in Sardegna avessimo la televisione. Erano i primi anni Novanta.
Ci lambicchiamo tanto per venire a capo delle laceranti distanze cui ci ha messo di fronte questa ondata rinnovata di migrazione extra italiana quando non siamo ancora riusciti a risolvere i nostri regionalismi.Il milanese è rimasto milanese, il siciliano è profondamente siciliano, così il veneto, e il napoletano (e la lista potrebbe proseguire infinitamente). Siamo tremendamente individualisti. Se a Messina costruiscono un ponte del tutto inutile perfino per i pendolari che utilizzano i traghetti, perché dovrebbe moltiplicare in un insensato gioco dell’oca stradale il loro percorso quotidiano, sono affari loro. A noi milanesi (“noi” in quanto naturalizzati) non ce ne frega niente. Pazienza se sono soldi pubblici, anche nostri. Se nel Mugello hanno sventrato i monti mandando in palla le falde acquifere (la popolazione locale ha avuto i rubinetti secchi per anni) e il sistema idrogeologico del territorio solo per guadagnare 10 minuti alla tratta della TAV Bologna-Firenze (e io certo non sono ideologicamente contraria ai treni super-veloci, anzi!), è affar loro. Al resto d’Italia non gliene frega niente. Se in Campania i bidoni scoppiano d’immondizia, e una città è diventata strame, “che se la tenessero, peggio per loro”. Cioè, è affar campano, mica italiano. Basti pensare al caso Alitalia. La guerriglia di rivendicazioni territoriali (anche piccine) che s’è scatenata nella tratta psicologica (più che geografica) Fiumicino-Malpensa ne è un chiaro esempio. Ognuno se ne stia a casa sua. Italioti, siamo. La travolgente cascata scatologica (altresì detta “di merda”, tanto per essere espliciti) che ha colto il mondo del lavoro schiacciando la generazione attuale dei trentenni (e non solo) in questa degenerazione costante che si sta mangiando diritti, stipendi e dignità, manco quella è servita. Neppure se gli mettono le mani in tasca l’italiota s’aggrega e fa collettività per salvare il culo a tutti. Se ci si spacca la faccia e le tibie allo stadio perché tu sei juventino e io sono interista, un motivo ci sarà. Intendo storico, culturale, e non solo sociale. Eppure mi chiedo, siamo stati il paese dei moti risorgimentali, che ha schizzato sangue per unificare tutte le tessere in-incastrabili di questo puzzle collettivo. Siamo la culla geografica dei ceppi culturali più evoluti del mondo. Perché qualche residuo non è volato fino a noi, oggi? Come abbiamo fatto a ridurci in questo stato? I galantuomini alla Ferruccio Parri - che non usciva più dal suo ufficio, come presidente del consiglio, mangiando solo pane e salame, per mesi, per ricomporre i pezzi di un’Italia scoppiata - o quelli alla Alcide De Gasperi (al di là di ogni colore politico o ideologizzazione, non me ne frega niente di quello) dove cacchio sono finiti? Come ricostruire il sistema che li ha generati? E’ solo una questione di tempo? L’anomalia nazionale ha solo bisogno di altri decenni, perché noi si possa diventare finalmente “ITALIANI”, e si possa lasciare indietro la muta di “ITALIOTI”?
1 commento:
brava
Posta un commento