Marina Terragni ci accoglie nel cuore del suo “focolare contemporaneo”. Una risacca di libri e giornali, ritagli ed inviti si frange sui piedi scalzi e abbronzati, in soggiorno. Il Labrador caramello disteso sul divano, la pentola che bolle sul fuoco, i panni che asciugano puliti. Questo, in fondo, l’apparato intimo e domestico della sua personale “controrivoluzione”, così ben dipanata nel suo ultimo libro “La scomparsa delle donne”, edito da Mondadori. L’assunto suona d’allarme: la donna non c’è più. La donna, quella vera, s’intende. A un certo punto l’emancipazione femminile ha sbattuto la coda di relazioni rotte, famiglie in pezzi e figli mai avuti, contro la solitudine e l’incomprensione in cui oggi galleggiano i rapporti. “Non c’è più quasi nessuna che voglia prendersi la briga d’essere donna”, scrive, “Siamo diventate tutti veri uomini”. Non solo nel lavoro, perfettamente cucito sulle misure maschili, anche nelle relazioni. “E’ da tempo che uomini e donne non stavano più così male tra loro”. Le donne, secondo Marina, sono farfalle intrappolane in retini maneggiati da maschi, la cui trama è fitta di regole fatte a loro somiglianza. A forza di sbattere le ali hanno finito per abituarcisi , mascolinizzando se stesse e le relazioni affettive. Contro queste donne - cyborg senza sesso, infilate nei kit virago di tailleur, ventiquattr’ore e orari impazziti - occorre opporre una “controrivoluzione” spruzzata di cura, accudimento, pazienza: in fondo, prerogative che scorrono da sempre sotto la pelle delle donne. “Oggi facciamo figli e ne deleghiamo la crescita a donne di altri paesi che fanno il lavoro che non vogliamo più fare, e che facevano le nostre mamme o nonne. Mentre noi lavoriamo con ritmi allergici alla vita. Che senso ha tutto questo?”, si chiede. Il ripensamento di questa condizione scuote ancora una volta le acque amniotiche della maternità. I figli, l’amore che si prende il suo spazio, la cura e l’accudimento sono la soluzione. Cioè tutto ciò che le donne, sedute sul treno dell’emancipazione (lanciato a gran velocità), hanno schiacciato nello sgabuzzino occidentale per far accomodare in soggiorno i diritti. Sempre di più. Quasi in un gran supermercato dove opportunità nuove occhieggiano dagli scaffali, in confezioni lucide, in un’inquietante forma di consumismo. “Fortunatamente, questa cultura in Sardegna e nel sud Italia ha radici più corte. La famiglia, il matrimonio conservano ancora traccia del loro dna originario”. E’ a queste donne che dobbiamo guardare per fermarci una spanna più in qua del precipizio? “Sì. In Sardegna, come nel sud, l’emancipazione ha mangiato polvere rispetto alle aree settentrionali. La forbice dei rapporti s’è meno divaricata. Se l’occidente è ormai divenuto – scippando un’espressione a un famoso sociologo – ‘il terzo mondo delle relazioni’, il sud e la Sardegna possono ancora insegnarci i codici del ‘primo mondo’. Ciò che più temo è la ‘nordizzazione’ della cultura mediterranea”. Donna che dà la vita, donna che la sottrae, sotto una muta di sangue e violenza tutta maschile. Come spiegarsi le donne di mafia in Sicilia (così ben illustrate nell’omonimo libro di Liliana Madeo), o il climax di potere muliebre di Maria Ausilia Piroddi, della cgl, o Grazia Marine, condannata a 25 anni di detenzione per il sequestro di Silvia Melis? “E’ quello che Sciascia chiamava ‘il focolare tirannico’. Anche il Times ne ha parlato, a proposito delle donne di al Qaeda. E’ il paradosso di femmine oppresse e dominatrici, che nel dominio della prole maschile rintracciano la loro moneta di scambio, il loro valore. Non credo che la soluzione sia l’empowerment, l’emancipazione, come alcuni suggeriscono. Sarebbe invece opportuno restituire alla loro natura di donne o madri una legittimità, un valore centrale”. Solo così si spezzerebbe questa catena di sangue, camuffata da rosario familiare. “Il momento è oggi – prosegue Marina – l’emancipazione è al suo climax e dobbiamo scegliere”. A tutti quegli uomini che intasano la sua posta, alla ricerca della donna, e del suo ritorno, Marina Terragni non può che rispondere “onorando la mia, di differenza”. In che modo? “Semplicemente, essendo donna”.
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