mercoledì 8 giugno 2011
Uolter, ma non dovevi andare in Africa?
Si chiama “L'inizio del buio”. Titolo che si apre a un orizzonte d'ottimismo, in effetti. Walter “Uolter” Veltroni ci riprova e presenta, nel salotto di Vespa, la sua ultima fatica letteraria. Di cui, detto con franchezza, non si sentiva granché l'esigenza. “Quando l'Italia perse l'innocenza, a causa della televisione”, è un po' la sintesi del suo pamphlet. Quella in cui Uolter, sfilata la veste di politico e indossata quella da vecchio cronista, presidia i talk show. Gli anni sono quelli di un'Italia ancora ferita dal brigatismo: 11 giugno del 1981. Mentre il tg spara la tragica cronaca del pozzo che si è risucchiato Alfredino Rampi, nella campagna di Vermicino (Frascati), a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci, 25 anni, viene acciuffato da un gruppo delle BR e crivellato con 11 colpi di arma da fuoco, in un casolare abbandonato nella campagna romana, dopo 55 giorni di prigionia e un processo sommario. La sua colpa? Essere il fratello di Patrizio Peci, primo pentito delle Brigate. Circostanze drammatiche, certo, cui guardiamo con estremo rispetto nei confronti delle famiglie delle vittime. Il punto, però, qui è un altro. Che ci vuole dire Uolter?
L’anno evocato nel libro era l'ultimo da consigliere comunale di Roma, nelle liste del Pci, eletto nel '76, a ventun anni. Dopo un'onorata carriera da figiciotto, come segretario dell'organizzazione giovanile del partito comunista. Insomma, ne deve aver viste, in quegli anni, il giovane Uolter. Eppure ora, sorprendentemente incanutito (e ci viene in mente il vecchio adagio andreottiano sul logorio del potere) rievoca quegli anni in una commistione di stupore, indignazione, sorpresa e buonismo: come un novello Candide, il personaggio voltairiano affetto da eccesso di ingenuità, e protagonista del “migliore dei mondi possibili”. Dopo la ripresa del Pd, alle amministrative, pare di assistere al “ritorno dei morti viventi”, giusto per esercitarsi in una citazione cinematografica, quella in cui Uolter è così provetto. Nel web, poi, è tutto un rilancio di interrogativi: «Ma non doveva andarsene in Africa?». Nella più citabile delle proposte, gli si offre un biglietto di sola andata con un messaggio più che chiaro: «Rottamiamolo».
Ma... ve lo ricordate Walter? Nel 2009, dopo il fallimento del suo progetto di un Pd disintossicato dalle fronde radicali (esclusa l'Idv) si dimetteva da segretario del partito, chiedendo addirittura scusa: «Occorreva dar vita ad un partito nuovo, mai visto nella storia italiana del dopoguerra. Io non ci sono riuscito ed è per questo che lascio e chiedo scusa».
Poi aggiungeva: «È una scelta dolorosa ma giusta, anche per mettere al riparo il Pd da ulteriori tensioni e logoramenti. Era chiaro già nei giorni scorsi che si dovesse aprire una pagina nuova». La pagina nuova è dichiarata nel 2010, per l'esattezza il 18 novembre (Corriere della Sera). «Sono per un'alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose. Non invoco né l'autosufficienza né l'isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un'alternativa fondata su un'idea d'Italia, su un messaggio positivo». Ah, ecco. Ma non doveva essere un partito unico?
Qualche mese prima, settembre 2010, a Gioia rivendicava il suo primato nel Pd, con una certa contrizione nell’essere stato quasi “dimissionato”: «Ultimamente ho girato l’Italia per partecipare alle feste del Pd. E ho misurato un affetto più grande di prima. Rivedere i luoghi della mia campagna elettorale e ripensare a quelle piazze piene, a quella passione, fa male. Ma so di essere arrivato fin dove era possibile arrivare, di aver conquistato il risultato migliore della storia del riformismo italiano e di averlo fatto nel momento più difficile, dopo l'esperienza dell’Unione e delle sue intollerabili divisioni». Appunto. Ma allora perché tornare dopo un congedo così glorioso?
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