sabato 30 gennaio 2010

"LA VERITA' - VI PREGO - SULL'ANARCHICO PINELLI"


Ottobre 1952. Licia ha ventiquattro anni. Pino dieci mesi secchi in meno.
“Perché intendete studiare esperanto?”, chiede l'insegnante, al corso in cui entrambi – senza conoscersi – si sono iscritti.
Licia non esita in una replica che le aggiudica un giovane sconosciuto, “svelto come un razzo” ad acconciarsi accanto a lei, nel banco.
Poi c'è una lunga passeggiata a piedi, da via Manzoni fino a viale Monza, in cui i due giovani possano acciuffare quote di territorio emotivo, prima di scambiarsi un bacio, sei mesi dopo.
Confesso: mi era sfuggito “Una storia quasi soltanto mia” (uscito lo scorso settembre per la Feltrinelli) cui io riassegnerei il titolo, “La versione di Licia”.
Licia Pinelli: per tutti - per sempre - “la vedova dell'anarchico”. Il giovane che studiava esperanto perché “se gli uomini si conoscessero non ci sarebbero più guerre”, volato giù dal quarto piano della questura di Milano, qualche minuto dopo la mezzanotte del 15 dicembre. Siamo nel '69. Tre giorni prima, diciassette morti e tre piani sbriciolati da un congegno che accascia la Banca Nazionale dell'Agricoltura come fosse cartapesta, nel cuore di piazza Fontana.
“La vedova “ - ma lei detesta che la chiamino così - affida molti dolorosi ricordi a Piero Scaramucci, giornalista Rai: la precauzione di chi entra in una cristalleria e il dito pigiato sul registratore, per un racconto setacciato su duecento pagine, e lungo qualche mese strappato al 1981.
C'è un po' di tutto, e molte sorprese. C'è la Milano bambina, del dopoguerra, coi cordoli di pietra antica, gli abbaini, l'aroma di ragù lungo i ballatoi, nelle vecchie case di ringhiera, con le porte sempre aperte, anche di notte, e i piccini a rincorrersi nei cortili umidi, figli un po' di tutti.
C'è un marito che s'infila in politica perché “non puoi sapere quanto può essere noioso un uomo in casa, quando hai un mucchio di cose da fare e vuole aiutarti”.
C'è una donna tignosa, dura e sincera, che sferruzza, in un angolo del tinello, e ogni tanto alza la testa e dice la sua, mentre una banda arlecchinata di uomini tenta di allacciare la propria maglia, con gomitoli politici di tutti colori (fascisti, antifascisti, socialisti, comunisti, anarchici) e poi tuffa le baruffe verbali in un pasto fumante, a fine serata.
Ci sono notizie micidiali, che ti atterrano nella notte inerme, e non hai che una vestaglia sottile e una cornetta dentro cui strilli “Perché non mi avete avvisata?”, mentre il commissario Calabresi esita, all'altro capo del telefono: “Ma sa, signora, abbiamo molto da fare”.
Ci sono due bambine sotto il loro grembiule, Silvia e Claudia, aggrappate alle braccia di Licia – la sua dignità stretta nel tailleur – il primo giorno di scuola. E' il millenovecentosettantuno: ad attenderle, i flash dei fotografi.
Eppoi ci sono parole come bombe d'inchiostro, che strillano sulla carta “suicidio”. E il rosario delle udienze, in processi troppo lunghi. Altre morti, così celebri da cancellare il tuo lutto, altri ordigni, molte bugie. Denunce che non s'arrendono.
“Devo essermi presa una cotta per qualcuno e per farmela passare sono andata in gita con delle mie amiche”, racconta Licia, quando il cronista le chiede il ricordo di qualcosa di rilevante, nei dieci anni dopo il lutto.
“Volevi rimanere fedele a Pino?”.
“No, non volevo più soffrire”.
Infine, c'è quel 9 maggio del 2009.
Due vedove, sullo stesso volo, per raggiungere il salone dei Corazzieri al Quirinale, nel giorno della memoria: una carezza, dopo troppi pugni, ai familiari delle vittime del terrorismo e delle stragi.
“Che effetto ti ha fatto, questo contatto?”, chiede il cronista, a proposito dell'incontro con Gemma Calabresi.
“I fatti sono fatti, le famiglie non c'entrano. Le famiglie non hanno nessuna responsabilità dei fatti”, risponde.
Ottantuno anni, due figlie ora grandi, irriducibile nel riaccompagnare alla porta molte lusinghe politiche, un cerotto alle emozioni incollato da quarant'anni.
Lei – che l'avvocato Carlo Smuraglia ricorda come “Un'eccezionale lezione di rigore e fermezza” – conclude con la sensazione di “uno Stato di diritto”, lì dentro, nelle sale del Quirinale, in quella giornata così particolare, sebbene serotina.
-“E quando sei uscita?”, chiede Scaramucci.
-“Un'altra Italia. Si respira un'altra aria fuori. Diversa, molto, molto peggiore. Un'Italia di nessun diritto”.