sabato 22 novembre 2008

BURRI, IL COERENTE

Succede nel 1989. Una mattina d’autunno. “Er pasticciaccio brutto di Parco Sempione”, lo chiamano ancora oggi. Milano è un po’ più “da bere” di quanto non sia adesso, forse più smaliziata: eppure si decide. Il teatrino donato alla città da Alberto Burri, nel 1973, va smantellato. Rimosso. E rimozione è, definitiva. Troppi - per l’assessore all’ecologia dell’epoca, Cinzia Barone - i venti metri di quinte e i dieci di palcoscenico che interrompono la gittata visiva tra Parco Sempione e Arco della Pace. Eppure è la Triennale a commissionarglielo, per la XV edizione. L’allora sindaco Paolo Pillitteri – ultima coda del boom socialista – simula sconcerto. A Luigi Corbani, assessore alla cultura, non resta che metterci una pezza e chiedere scusa all’artista. Il comune neppure gli risponde quando chiede indietro le sue quinte di ferro. E’ l’ultima stretta di mano tra Burri e un’amministrazione comunale miope, quantomeno. Il teatrino vola dritto dritto ad Atene, come a dire, nemo propheta in patria. L’artista la giura a Milano e non ci rimette più piede. Ancora sono lontane le scintille tra l’assessorato alla cultura – più che altro l’assessore, Vittorio Sgarbi (in carica o non più sarà un nuovo ricorso, probabilmente, a deciderlo) – e il sindaco Letizia Moratti.
Burri non immaginava certo la ridda di scontri, battute, repliche, lancio d’agenzie, ricorsi, neodesignazioni di vent’anni dopo, tra il maestro e la sindachessa, che neanche un feuilleton. Il tutto in una città indecisa se abbassare l’orlo della gonna – si tratta pur sempre d’una signora, per di più di lontane radici asburgiche – o ritornare all’aria frizzantina in cui fioriva l’avanguardia artistica internazionale, coi suoi Manzoni e le scatolette di “merda d’artista”, i tagli di Fontana, le irriverenze dei futuristi. Tutto esplode nell’estate 2007 con la mostra “Vade retro”. Centosessanta opere vagamente insolenti, tipo Papa Benedetto XVI in perizoma e autoreggenti, Silvio Sircana che si sporge dall’auto verso un trans che ha il volto di Gesù. Cose così. “Suor Letizia” dice “not in my name”, Sgarbi corre a farsi consolare tra le braccia di Michela Vittoria Brambilla.
Poi non se ne fa più niente, non a Milano. Però, è guerra. Prima la polemica sui graffiti e il Leonka (“sono arte, non sono arte”); poi la bagarre sul nuovo museo d’arte contemporanea (vecchia fiera o progetto di Renzo Piano, nell’ex area industriale di Sesto San Giovanni?); a seguire, l’affaire delle torri storte di City Life, fino all’oggi e alla travagliata questione della tavola del Caravaggio: spostare o no, da Roma a Palazzo Marino, breve prestito per una mostra, “La conversione di Saulo”? Alla fine ha vinto il “sì”, manco si trattasse di un referendum.
Ma le cose non si fermano qua. Anche Maurizio Cattelan, nel 2004, deve fare i bagagli. I suoi bambini di pezza, appesi alle querce di piazza XXIV maggio, scatenano minacce della Lega, interpellanze in consiglio comunale, cadute nel tentativo di rimuoverli. La città non gradisce.
I fantocci volano a Siviglia, Biennale d’arte. Stesso copione nel luglio 2007. Fernando Botero è accolto a Milano in un’antologica a palazzo Reale. Per omaggiare il nucleo urbano, le sue sculture vengono disseminate all’aperto, per tutta la città. Sul pube di “Donna in piedi”, in piazza della Scala, compare una doppia “w” verniciata d’oro. Opera d’un guitto? Chissà. Sgarbi esulta: “Arte su arte!”. Il maestro grida: “Gesto d’inciviltà”. De Corato, vicesindaco, si precipita a ripulire. Insomma, Burri si consoli: è in buona compagnia. Oggi, quella Milano che ha cacciato il suo “Teatro continuo” tenta di farsi perdonare, e gli dedica, ex post – l’autore muore a Nizza nel 1995 – la più completa retrospettiva mai organizzata prima d’ora. Duemilacinquecento metri quadri solo per lui, al palazzo della Triennale, fino all’8 febbraio del prossimo anno. I curatori, Maurizio Calvesi e Chiara Sarteanesi hanno riportato qui i catrami, i gobbi, le muffe, i sacchi, i legni, le combustioni, i neri che Burri s’era inventato; lui, che detestava le mode – piuttosto le dettava – e stava ben attento a non calpestare tracciati altrui, o a unirsi allo sciame dei grandi movimenti artistici. Il grosso delle opere, tra cui due nuclei d’inediti, proviene dalla Fondazione Burri di Città di Castello, dove l’autore nasce, nel 1915. Non dal corpus permanente di Palazzo Albizzini o degli ex Seccatoi di tabacco, però – troppo conforme come scelta – ma da un lascito che lui stesso aveva apparecchiato, con lucida lungimiranza, in vista di antologiche come questa, allestite dopo la sua morte.
Quand’è rinchiuso dentro un campo di concentramento – siamo nel 1943, a Hereford, in Texas, prigioniero degli inglesi – Alberto Burri è un giovane ufficiale, laureato in medicina. Ma le scaglie di vita rosicchiate che può afferrare da dietro i muri della prigionia gli si rivelano come apparizioni materiche. Congerie di sabbia, fili di iuta, polvere, legno, segatura che sembra oro. “Dipingevo tutto il giorno – scrive nel 1994 – Era un modo per non pensare a tutto quello che mi stava intorno e alla guerra. Non feci altro che dipingere fino alla Liberazione. E in quegli anni capii che io ‘dovevo’ fare il pittore”. Così, mollati i ferri chirurgici e afferrati i pennelli, Burri non si ferma più. Armeggia, sperimenta, non s’accontenta. Il colore non gli basta. La tela non può essere solo un supporto per la tinta. Perché non procedere per sottrazione? Se la vita si risolve, a volte, in ferita, perché non riprodurla su tavola? Non i tagli alla Fontana, però. Quelli già ci sono. Ci vorrebbe una fiamma ossidrica, perché anche l’esistenza brucia. E ci vorrebbero grossi teli di plastica che sembrano polmoni su cui, sotto traccia, passeggia il sangue. I “Rossi” nascono così. Fuoco che si fa strada sulla plastica. Buchi profondi, sempre nuovi. Perché il più grande terrore dell’artista è che “l’ultimo quadro sia uguale al primo”. Allora, esaurita la vena dei polimeri, si passa al legno, e poi alla segatura, e al sacco. Celebrato per quello che è. Senza fronzoli concettuali. “Potrei ottenere quel tono di marrone, ma non sarebbe lo stesso perché non avrebbe in sé tutto quello che voglio che abbia… nel sacco trovo quella perfetta aderenza tra tono, materia e idea che col colore sarebbe impossibile”, annota. Questo suo sfuggire a etichette rassicuranti fa impazzire la critica. Art brut? Informale? Concettuale? Arte povera? L’Italia degli anni Sessanta (colleghi compresi) non lo capisce. “Stracci antigienici”, urlano i critici. I galleristi scuotono la testa. Burri va avanti, perché avanti procede il corso dell’arte. In veranda, in mezzo alle sue colline umbre, si gingilla in cerca di nuove bricconate. Non per il gusto dello scandalo – sarebbe banale – ma per non annoiare se stesso.
La risposta, come sempre, la fornisce la terra. La serie dei “cretti” non è altro che un desiderio che l’artista compone. Un omaggio alle richieste che la natura ostenta, e che sembrano mute ai più. La terra che brucia, assetata dal sole. In fondo, se ci si pensa bene, è un grido visuale. Questi sono i cretti. Spaccature in materia. Perché anche la vita rompe, sbriciola, maciulla. Il 15 gennaio del 1968 un sisma più forte degli altri ingoia millecentocinquanta morti. A Gibellina, in Sicilia. Novantottomila senza tetto, sei paesi della Valle del Belice sbriciolati. Possibilità di ricostruire non ce n’è, però una traccia sì, quella bisogna lasciarla. Per ricordare la tragedia, pensa l’amministrazione comunale. Burri accetta. Guarda, gira, perlustra. Come fare? Sale, scende, si ferma. Che fare? Si danna. Poi la risposta. Ancora una volta è la geografia del territorio a suggerirgliela. Scrive nel 1994: “Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era quasi ultimato ed era pieno di opere. ‘Qui non faccio niente di sicuro’, dissi subito. ‘Andiamo a vedere il posto dove sorgeva il vecchio paese’. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere . E mi venne l’idea: ‘Ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema anche per voi, le armiamo per bene e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco. Così che resti un perenne ricordo di questo avvenimento’”. Il cantiere apre nel 1984, per chiudere cinque anni più tardi. Grosse macchine dentate sollevano le macerie, poi ricompattate e arginate da fili metallici. Sui blocchi imponenti cola cemento liquido candido. Divisi da solchi di tre metri di larghezza, i massi raggiungono il metro e sessanta d’altezza. Per un’area di dodici ettari. Materia grezza che si fa epica. Un dedalo che è anche architettura. Frammenti che si ricompongono, ma il segno evidente della cicatrice è ancora là, visibile. Ci puoi camminare dentro, attraverso, e puoi vederlo da lontano, dall’alto. Appunto: un grido nella valle muta. Carlo Argan lo definisce “una sorta di trompe l’oeil al rovescio, nel quale non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura”.
Un po’ come quel suo Piero della Francesca, l’amato autore che viene dal passato, per il quale l’artista si fa anche cento chilometri in bicicletta, fino a Urbino. La lezione (pittura che vuole farsi architettura, e viceversa) è assimilata.
Dopo l’esperienza siciliana, Burri è pronto per spezzare la noia con un’altra giostra. E per rompere un altro luogo comune, su cui gli altri si siedono. Il nero. Un colore senza sorprese, un colore dove la vita non danza. Errore. Se si sposta l’onda del catrame, sulla tela, il nero si mostra, in tutte le sue variazioni. E può essere sorprendente. Nero grumoso, nero piatto. Nero carbone, o liquirizia. Nero cupo, e persino brillante. “Due neri diversi, vicini, possono esser altrettanto formidabili, altrettanto colorati”, scrive. Ne nasce un’intera serie (qui in mostra, inedita). Dall’86 all’87 l’artista, curvo sulle tele, non fa altro che stendere grosse campiture di nero, graffiando, lisciando, scoprendo il colore. E poiché immense sale bianche schiaffeggiano le gigantesche tele brune – questo è un po’ l’effetto – si premura che i lavori vengano appesi su ampie pareti. Nere anch’esse. Il risultato è inimmaginabile: danza, ritmo, movimento. Però, siccome il tedio è sempre in agguato – niente figli (per scelta), un matrimonio, molto da fare e molto da viaggiare – Burri affronta anche la grafica, forse la sua attività meno conosciuta, fin dalla metà degli anni Sessanta. E anche in questa occasione lo fa a modo suo. Gli stampatori, in laboratorio, impazziscono dietro al suo desiderio di bucare tutto ciò che è conforme. Le regole sono lì, apposta per essere rotte. Burri gioca, inventa, sperimenta. Calibra gli smalti, confonde le tecniche, generando neri mai prodotti in serigrafia. Lucidi, opachi, lisci, rugosi. Ma la grafica è anche un buon pretesto per far esplodere il colore. Accostato in una tavolozza che è un’arlecchinata cromatica. Come in “Sestante” del 1982, dove insegue i timbri fluorescenti delle tempere, vincendo una scommessa lunga e costosa, in quanto a tecnica: riprodurre le sfumature dei colori. Mentre in “Monotex”, dello stampatore si può anche fare a meno: è Burri a realizzare direttamente l’assemblaggio dei cartoncini. L’Accademia Nazionale dei Lincei, questa volta, capisce. Il Premio Feltrinelli per la Grafica è suo, nel 1973, con la seguente motivazione: “Per la qualità e l’invenzione, pur nell’apparente semplicità, di una grafica realizzata con mezzi modernissimi, che si integra perfettamente alla pittura dell’artista, di cui costituisce non già un aspetto collaterale, ma quasi una vivificazione che accoppia il rigore estremo a una purezza espressiva incomparabile”. L’artista ringrazia e devolve la somma del riconoscimento al restauro del ciclo di affreschi di Luca Signorelli, nell’Oratorio di San Crescentino a Morra (Città di Castello).Non ama viaggiare, non ama apparire, odia parlare di sé. Però i suoi lavori, le colle, i cretti, le muffe, Burri li segue come i figli che non ha mai avuto, nelle sale espositive di mezzo mondo.
Darmstadt, Rotterdam, Parigi, Chicago, New York, Milwaukee. Perché non è solo importante la forma dell’opera, ma, nella stessa misura, lo spazio in cui è accolta. Opere che spesso ricompra, geloso. E accumula: da qui nasce il corposo nucleo che oggi nutre la Fondazione di Città di Castello. Soprattutto, detesta spiegare, perché un artista che spiega ha già mancato l’obiettivo: “La mia è una versione pittorica, attraverso un mezzo visivo anziché letterario o musicale, della vita – scrive – Il resto è un’interpretazione, è un’altra cosa. La pittura non deve essere spiegata. La pittura è pittura, si spiega da sé, altrimenti è come tornare indietro di migliaia di anni ai caratteri cuneiformi, ai Sumeri, quando è necessario spiegare di che si tratta. Le mie immagini, perché è di immagini che si tratta, sono un equivalente della parola. E come spiegare la poesia?”.
Poi c’è un’altra passione. La scenografia. Per il teatro. Non uno qualunque, ma “il teatro”: la Scala di Milano. S’inizia nel 1963, con scene e costumi del balletto “Spirituals” per Orchestra, con la coreografia di Mario Pistoni. Nove anni dopo è al Teatro dell’opera di Roma. Un gigantesco “cretto” fa da quinta allo spettacolo “November steps”, su musiche di Toru Takemitsu e coreografia di Minsa Craig. Una proiezione fotografica consegna al pubblico la sensazione che la materia lentamente si screpoli, fino quasi a sgretolarsi. Nel 1975 è la volta di “Tristano e Isotta” di Wagner, Teatro Regio di Torino. Scrive lo storico Cesare Brandi: “Nell’ultimo atto, l’epilogo della tragedia è controfondato da un grande Cellotex color cammello, come un cielo sotto una tempesta di sabbia, attraversato da una via lattea appena un po’ in rilievo (…) l’epilogo di amore e morte è come acquietato da questa ambientazione”. Però la sfida più grande è “L’avventura di un povero cristiano”, di Ignazio Silone. Allestita nella piazza di san Miniato al Tedesco (in provincia di Pisa) nel 1969, per la regia di Valerio Zurlino. Un sacco logoro e ricciuto rimanda alla parabola di San Francesco, mentre una grande plastica cremisi strizza l’occhio alla fastosa curia vescovile napoletana di Papa Celestino V. Tutto il paese è coinvolto. Una grande festa.
Infine la scultura, tardiva, tra gli anni Ottanta e Novanta. Opere robuste, monumentali, che ripercorrono le stesse ossessioni di una vita, in formato tridimensionale: l’archivolto, il rosso, i grandi ferri.
Muore a Nizza, nel ’95, a ottant’anni.
“La nostra stabilità è solo equilibrio e la nostra sapienza sta nel controllo magistrale dell’imprevisto”, amava ripetere, citando Dyson Freeman. Quasi un manifesto di quel modo di procedere in arte, unico, solo suo. Dove l’imprevisto è il motore del lavoro e della vita.

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